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Articolo sull'Eutanasia a firma della Prof.ssa Stefania Stefanelli, Universita Statale Perugia

1/18/2016

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Il disegno di legge di iniziativa popolare promosso dall’Associazione Luca Coscioni, calendarizzato per il prossimo marzo, risponde alla condivisibile esigenza di disciplinare senza ulteriore ritardo la materia delle dichiarazioni anticipate di trattamento, più note come testamento biologico, il cui eco mediatico si spense tanto repentinamente quanto si accese, con la trista vicenda di Eluana Englaro, nel 2007.
Il testo prevede che qualsiasi cittadino possa formulare anche la richiesta di un trattamento eutanasico attivo, quando si trovi in condizioni di piena capacità, ovvero di esprimere questa volontà anticipatamente, attraverso «un atto scritto, con firma autenticata dall’ufficiale di anagrafe del comune di residenza o domicilio», accompagnato, a pena di inammissibilità, «da un’autodichiarazione, con la quale il richiedente attesti di essersi adeguatamente documentato in ordine ai profili sanitari, etici ed umani ad essa relativi». In caso di sopravvenuta incapacità di discernimento o di espressione sarà necessario che un fiduciario, nominato con lo stesso atto, confermi per iscritto la richiesta eutanasica.
Ciò che preme sottolineare è che questa richiesta – che dovrebbe essere rispettata sanitari, pena la loro responsabilità, in forza del principio fondamentale per cui ogni intervento medico deve essere oggetto di consenso libero ed informato del paziente – diverrebbe efficace nel momento in cui il richiedente sia «affetto da una malattia produttiva di gravi sofferenze, inguaribile o con prognosi infausta inferiore a diciotto mesi», e dunque rispetto ad un novero difficilmente predeterminabile di persone sofferenti, per cui i promotori reclamano la soddisfazione dei diritti fondamentali di dignità cui si informa l’art. 32 della Costituzione, col prevedere che qualsiasi trattamento medico debba essere consentito, nel rispetto della dignità umana.
Ma è proprio con riguardo ai presupposti essenziali per integrare una volizione effettivamente libera e consapevole che il testo si rivela carente, risolvendo in una clausola di stile – quella autodichiarazione circa l’essersi adeguatamente documentato in ordine ai profili fondamentali della richiesta eutanasica – quel consenso informato che, anche ai sensi degli artt. 8 e 9 della Convenzione internazionale di Oviedo sulla Biomedicina del 1997, è un processo che non si esaurisce nella sua documentazione per iscritto, e nel quale si realizza il diritto del paziente di essere informato con termini e modalità adeguati alle proprie condizioni e capacità, dal medico che ne ha cura, del proprio stato, della patologia diagnosticatagli e della sua prevedibile evoluzione, delle terapie praticabili e dei relativi rischi, ma anche di confrontarsi con le persone care e con altri professionisti  e di ricevere le terapie palliative, di sollievo dal dolore.
Di maturare, in sintesi, una decisione che sia effettivamente consapevole.
Ma chi, ed in quale modo, potrebbe verificare il rispetto di queste istanze fondamentali rispetto ad una dichiarazione raccolta e documentata in un modulo dall’ufficiale dello stato civile? Il paziente potrebbe essersi limitato a copiare un modello, reperito chissà come, essersi documentato su internet o affidato al sentito dire, o aver formato la propria determinazione in astratto, senza poter comprendere pienamente né prevedere quelle condizioni psico-fisiche di patologia terminale nelle quali quella dichiarazione produrrà effetto, quando egli non avrà la possibilità di revocarla, trovandosi in stato di incapacità.
Molto più equilibrate appaiono alcuni contenuti di altre proposte di legge depositate e non ancora calendarizzate (d.d.l. Marino S5; Manconi S13), che prevedono la necessaria assistenza del medico in sede di redazione delle direttive anticipate di trattamento, in attuazione di quella alleanza terapeutica, diretta al bene del paziente, nella quale il professionista sanitario è tenuto ad informare il malato, in modo chiaro, completo e comprensibile, perché egli possa prendere una decisione che deve essere rispettata proprio perché esprime il suo, personale ed insindacabile, bilanciamento dei rischi, dei benefici, degli effetti sperati, collaterali, secondari anche pregiudizievoli, delle terapie e degli interventi che il medico, in scienza e coscienza, gli propone.
Di uguale ed imprescindibile rilievo è l’esigenza di garantire la libertà del consenso al trattamento medico, ed in particolar modo di quello eutanasico. Non può dirsi veramente libera la decisione di interrompere la propria esistenza quando chi la prende si ritrova privo del sostegno delle persone care, abbandonato in solitudine al proprio destino di morte, o di chi soffra un dolore sfiancante, insopportabile, senza il conforto di quelle cure palliative che sono fondamentale gesto di misericordia e umana compassione, prima che diritto garantito dall’art. 1, l. 38 del 15 marzo 2010, che le ha inserite tra nei livelli essenziali di assistenza garantiti dal servizio sanitario nazionale.
All’uomo non sono comprensibili le ragioni divine del dolore fisico intollerabile, come insegna il libro di Giobbe, ma le cure palliative possono dare una valenza «significante» della vita, nel suo stato terminale, attraverso l’inserimento del malato in centri servizi, il cui «scopo non è più quello di guarire ma di permettergli di vivere al massimo delle sue possibilità, assicurandogli sul piano fisico, confort e possibilità di svolgere attività, e garantendogli, d’altra parte, di poter coltivare relazioni personali sino alla morte»: lo hanno dimostrato S. SAUNDERS e M. BAINES (Living with Dying, ed. Oxford University Press, 1983), ne ha affermato la compatibilità con la religione cattolica Papa Pio XII in un discorso in un discorso tenuto al IX Congresso della Società di Anestesiologia il 24 febbraio 1957, ma restano ampie aree del territorio nazionale in cui sono negate ai pazienti terminali. Disparità di trattamento deprecabile, perché a danno di persone deboli, massimamente bisognose di protezione.
Non è da tralasciare, infine, il caso di quelle persone che sanno di gravare di debiti i propri congiunti per pagare una retta mensile, pretesa dalla struttura di degenza, troppo spesso di gran lunga superiore alla propria pensione e delle eventuali prestazioni assistenziali, e per questo si determinano alla decisione di accorciare la propria agonia domandando di essere accompagnati farmacologicamente alla morte.
Può dirsi veramente libera la scelta eutanasica, in queste condizioni, o non si deve, piuttosto, dare piena attuazione al precetto di solidarietà politica, economica e sociale cui l’art. 2 della Costituzione lega il riconoscimento dei diritti inviolabili di ogni uomo?
Per il dibattito politico che si inaugura si auspica dunque non una sterile contrapposizione ideologica, ma la presa di consapevolezza della necessità di porre l’individuo nelle concrete condizioni in cui possa esprimere, in piena libertà e consapevolezza, la propria idea personale di «vita dignitosa» e che merita di essere vissuta senza subire pressioni che possono derivargli dall’abbandono, dal dolore o dal peso economico delle scelte che, per realizzare quell’idea, gli si prospettano.
Se è vero che solo il malato terminale è in grado ed ha il diritto di decidere se, secondo il suo apprezzamento, le condizioni in cui si trova siano o no «vita», e come tali debbano essere mantenute, il presupposto fondamentale di tale affermazione di principio risiede nella indifferenza economica della scelta di prolungare quelle condizioni o di interromperle, e nel rilievo «sociale e comunitario» della decisione, che oltre al paziente coinvolge la struttura in cui è ricoverato, il personale che deve occuparsi della sua cura, e naturalmente la sua famiglia, quale luogo degli affetti in cui egli sviluppa pienamente la propria personalità.
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